Nel corso delle ultime settimane, dominate dai forti timori per lo spread tra gli italici “BTP” e i teutonici “bund”, è stato da più parti suggerito come una delle medicine per alleviare gli effetti della crisi potesse essere una “secessione” dall’unione monetaria.
Ai nostalgici della lira va, però, preliminarmente ricordato come i trattati siglati tra i paesi dell’Unione europea non prevedano, allo stato attuale, la possibilità di abbandonare la moneta unica; in particolare, il recente trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, nonostante consenta il recesso dall’Unione europea, non prevede alcuna disciplina relativa alla sola uscita dall’euro.
Oltre a queste brevi considerazioni di carattere strettamente burocratico, vanno tenute bene in considerazione le conseguenze che potrebbero generarsi qualora ad abbandonare la moneta unica fosse un paese con un’economia fragile come, attualmente, è quella italiana.
Dal un punto di vista operativo, un break-up dall’euro, sia esso unilaterale o concordato, sia che esso coinvolga un paese marginale o uno centrale, richiederebbe lo stato d’eccezione con una sospensione temporanea del mercato.
Occorrerebbe, pertanto, impedire l’assalto agli sportelli e la fuga dei capitali, bloccare gli scambi di merci e di titoli, fintanto che non venga definito con certezza il valore ufficiale della nuova moneta, al fine di assicurarsi la sufficiente circolazione di banconote e pezzi metallici.
I sostenitori della “riesumazione” del vecchio conio sostengono che i principali vantaggi dell’abbandono dell’euro consisterebbero:
- in primo luogo, in un ritorno a protagonista della Banca d’Italia, la quale tornerebbe a dettare autonomamente le politiche monetarie del paese, senza più dipendere dalle bizze dei tecnocrati di Bruxelles;
- in secondo luogo, il nostro paese potrebbe decidere liberamente se e quando svalutare la moneta, cosa che potrebbe essere assai utile all’export.
Uno studio di UBS delinea, invece, quelli che potrebbero essere i “disagi” di un ritorno alla lira.
Innanzitutto, le prime problematiche sorgerebbero in ordine alla scelta da operare nei confronti del debito pubblico, dovendo lo Stato decidere se lasciarlo in euro o convertirlo nella moneta nazionale. Nel primo caso, a causa dell’uscita dall’euro il paese vedrebbe distrutto il proprio commercio estero non riuscendo, così, ad ottenere valuta estera (l’euro), l’Italia non sarebbe in grado di finanziare il debito pubblico: di qui ildefault.
Nel caso, invece, in cui decida di convertire il proprio debito in valuta nazionale, tale scelta potrebbe essere interpretata negativamente dagli investitori, in quanto segno di difficoltà nel ripagare i propri debiti. Tutto ciò, comporterebbe un notevole aumento del tasso d’interesse sui debiti verso gli altri paesi europei, tale da decretare il default.
Per i Paesi più deboli e indebitati come l’Italia, inoltre, un ritorno alla moneta nazionale comporterebbe unasvalutazione ipotizzata fino al 60% rispetto al blocco euro. Con crollo degli investimenti transfrontalieri, ripristino dei controlli sui movimenti di capitale, forte perdita di fiducia all’interno del sistema finanziario, enormi ostacoli tecnici e legali.
Non solo, si avrebbe un’economia in piena deflazione, una caduta delle entrate fiscali e una conseguente impennata del deficit pubblico.
E ancora, le aziende avrebbero difficoltà a ripagare i propri debiti in valuta estera a causa del forte deprezzamento del cambio successivo all’uscita del Paese, in quanto ciò comporterebbe la necessità di avere più unità di valuta nazionale per acquistare una unità di valuta estera.
Qui, poi, ci sarebbero altri problemi, tra i quali: possibile uscita dall’Unione europea con conseguente perdita di benessere sociale derivante da politiche protezionistiche, collasso del sistema bancario interno, disordini civili e altri drammatici scenari connessi.
L’elaborazione di UBS si configura come un mero esercizio teorico di politica monetaria e valutaria, che necessiterebbe di maggiori analisi ed approfondimenti; in ogni caso, pare assai improbabile che una crisi profonda come quella attuale possa essere attenuata, se non addirittura risolta, attraverso la reintroduzione della lira.
Ritengo, pertanto, che cercare una soluzione semplicemente finanziaria a un problema economico reale, come quello che stiamo vivendo attualmente, non potrà mai dare buoni frutti, sia con l’euro che con la lira.