Sono i primi giorni di dicembre e voi uscite di casa per cominciare a comprare i regali di Natale. Vi fermate ad un bancomat per rimpinguare il portafoglio, infilata la carta, ma non succede niente: il prelievo non è disponibile. Provate ad un secondo Bancomat, ad un terzo, ma è dovunque la stessa storia. Nel negozio, il titolare declina cortesemente di accettare la vostra carta di credito e chiede euro contanti. Che succede? Un black-out elettronico? No. Succede che, mentre voi non eravate attenti, l’Italia ha dichiarato default, è uscita dall’euro e sul paese è sceso un black-out non elettronico, ma finanziario.
L’ipotesi è ancora remota. Esiste ancora la possibilità di fermare il collasso del debito pubblico italiano, riguadagnando credibilità presso gli investitori e/o salutando l’arrivo del Settimo Cavalleggeri, sotto forma di Bce o Fmi. Ma, se la traiettoria dei mercati resta quella disegnata in queste ultime ore, quell’ipotesi rischia di materializzarsi. Si chiama, comunque, bancarotta, ed è, in ogni caso, una sciagura, ma può assumere forme diverse: bancarotta dolce (“orderly default”), bancarotta extra strong (“disorderly default”), bancarotta con il botto (l’uscita dall’euro).
La bancarotta dolce. E’ quanto è già stato previsto per la Grecia. Sostanzialmente, un concordato fallimentare. I creditori accettano un taglio al valore nominale dei titoli italiani e un tetto al relativo tasso di interesse. L’Italia alleggerirebbe il suo debito pubblico (ad esempio del 30 per cento), portandolo a livelli più vicini a quelli di paesi più virtuosi. Collocare nuove emissioni presso investitori già scottati, tuttavia, comporterebbe tassi di interesse relativamente alti. Per i risparmiatori, infatti (il 12 per cento dei titoli è in mano alle famiglie, un altro terzo lo detengono i fondi) il taglio sarebbe una pesante tosatura.
Ancora più gravi gli effetti macroeconomici. Le banche, italiane ed estere (gli istituti francesi e tedeschi hanno in pancia circa 150 miliardi di euro in titoli pubblici italiani) accuserebbero forti perdite di bilancio e avrebbero bisogno di aiuti per ricapitalizzarsi: in ogni caso, ridurrebbero il credito alla clientela, in un momento in cui l’Europa è già sull’orlo della recessione. E’ il temuto “credit crunch”
La bancarotta extrastrong. E’ il caso Argentina: il default selvaggio. L’Italia annuncia che non pagherà più i suoi debiti, togliendo dal tavolo quasi 2 mila miliardi di euro. Almeno per qualche anno, nessun investitore estero ci presterebbe più soldi. Tecnicamente, non è un problema gravissimo: lo Stato continuerebbe a funzionare. Al netto degli interessi, infatti, il nostro bilancio è quasi in pareggio. Ma gli effetti economici sarebbero devastanti. Il rischio di fuga dei capitali – già presente nello scenario “dolce” – diventerebbe immediato. Oltre allo Stato, anche le aziende italiane si vedrebbero chiudere l’accesso ai mercati. Ma, soprattutto, l’impatto sulle banche e sul sistema finanziario mondiale sarebbe enorme e il “credit crunch” una certezza.
La bancarotta con il botto. E’ quasi impossibile che un default selvaggio non comporti anche un’uscita dell’Italia dall’euro. Tecnicamente, è un incubo: bisognerebbe rivedere i trattati europei e rivotarli, stampare la nuova moneta, riprogrammare computer e bancomat con la nuova valuta. Ma, economicamente, è molto peggio: all’impatto del default selvaggio bisogna aggiungere nuovi elementi. La fuga di capitali diventerebbe una certezza, nel tentativo di spostare i propri euro all’estero, prima della conversione.
Agli sportelli delle banche, ci sarebbe l’assalto. Verrebbero varati stringenti controlli sui movimenti di capitali e, probabilmente, ci sarebbe anche un congelamento dei conti correnti bancari, come in Argentina. La nuova moneta sarebbe svalutata, rispetto all’estero. Questo rilancerebbe le esportazioni (escludendo ritorsioni commerciali da parte degli ex partner europei), ma l’Italia, uscendo dall’euro, uscirebbe anche dall’Unione europea e non potrebbe più usufruire dei vantaggi del mercato unico.
La svalutazione, d’altra parte, rende più competitive le esportazioni italiane, ma rende assai più care le importazioni, a cominciare dal petrolio. Il risultato sarebbe veder ripartire, di gran carriera, l’inflazione e la rincorsa prezzi-salari. Molto dipende dall’entità della svalutazione che, però, è difficilmente gestibile: per riguadagnare la competitività perduta, negli ultimi dieci anni, verso la Germania, all’Italia occorrerebbe un deprezzamento della moneta del 25%.
Ma il crollo della nuova lira, secondo gli analisti dell’Ubs, sarebbe inizialmente molto più alto, fino al 50-60%. Per questo, gli esperti della banca svizzera (che ipotizzano barriere commerciali nel resto d’Europa contro i prodotti italiani a costo stracciato) calcolano che il Pil italiano potrebbe inizialmente contrarsi anche del 40%. All’Ubs sono, probabilmente, troppo pessimisti, ma il punto è che l’introduzione della nuova lira sarebbe assai diversa dalle svalutazioni della vecchia, perché rimarrebbero valide le precedenti obbligazioni dell’euro.
I debiti fra italiani potrebbero essere ridenominati in un rapporto uno a uno (una nuova lira per un euro): chi ha un mutuo di 100 mila euro, si troverebbe con un mutuo di 100 mila nuove lire. Ma quelli esteri resterebbero in euro, da pagare con una moneta svalutata del 50-60 per cento.
Per una economia, come quella italiana, profondamente integrata in Europa, sarebbe un massacro: molte aziende, con incassi in lire e debiti in euro, finirebbero schiacciate e, a catena, dovrebbero chiudere.